A cura della dott.ssa Mara Corallini – pedagogista
La relazione tra madre e bambino inizia in utero: è già da lì che le due individualità iniziano a dialogare e a conoscersi, influenzandosi vicendevolmente. Le ultime ricerche scientifiche dimostrano infatti che l’interazione che si instaura tra feto e gestante è molto complessa e comporta un completo coinvolgimento: l’utero non è un’incubatrice biologica ma una parte di una persona completa, che, attraverso l’interazione, influenza lo sviluppo psico-fisico del feto.
Con il parto la relazione subisce una trasformazione importante: madre e figlio vengono fisicamente separati ed inizia una nuova modalità relazionale che via via che lo sviluppo del bambino fà il suo corso, si arricchisce di aspetti simbolici culturalmente definiti e condivisi.
Dalla nascita madre e bambino iniziano a comunicare faccia a faccia: i segnali comunicativi devono essere svelati ed appresi poco a poco; come per due ballerini che vogliano imparare a danzare insieme, esiste una fase di “sintonizzazione” che procede per tentativi ed errori, fino a raggiungere uno stato di intima conoscenza reciproca. La regia è affidata all’adulto, che però non impone la sua danza al bambino, ma resta in attenta e curiosa osservazione del piccolo, alternandosi come propronente o rispondente alla danza di sguardi, vocalizzi, gesti.
Ciò che fa di questa danza una “buona danza” sono le “riparazioni” che giungono dopo le rotture relazionali: il bambino può costruirsi l’idea di essere circondato da adulti che ce la mettono tutta per capirlo ed aiutarlo, ed impara a guardare al mondo con fiducia, poiché si aspetta che entro un tempo ragionevole i bisogni che esprime troveranno risposta: il mondo è insomma un posto sicuro, prevedibile. La “prevedibilità” per un bambino è un’esperienza fondamentale perché da un lato lo rassicura emotivamente e dall’altro gli permette di cominciare ad imparare cosa aspettarsi e quindi ad organizzare delle risposte intenzionali.
La danza, “non è una buona danza”, quando l’adulto che si prende cura del bambino è ipo-sintonizzato,ovvero non risponde ai bisogni del bambino o lo fa veramente troppo tardi. In questo caso il bambino sviluppa una sfiducia verso il mondo, che non è né prevedibile né lo sente essere disponibile per lui. Non è una buona danza nemmeno quella dell’adulto che è iper-sintonizzato con i bisogni del bambino, ovvero di quel tipo di genitore che li anticipa sistematicamente o esagera nel dare risposta. In questo caso il bambino viene privato dell’esperienza fondamentale di sentire il proprio bisogno ed esprimerlo, di attendere il giusto tempo prima che la figura di accadimento risponda al suo appello. In altre parole il bambino viene privato della possibilità di fare esperienza della frustrazione e dell’affermazione di sé, aspetti che concorrono a formare il senso di autoefficacia personale, necessario per imparare a sopportare le normali de-sintonizzazioni temporanee di cui la vita è normalmente caratterizzata. Questo bambino potrebbe decidere di mette via l’idea di essere molto fragile e di non poter essere indipendente dagli altri, in un mondo che interpreta come minaccioso ed intrusivo.
Quando invece il bambino fa esperienza di una danza relazionale “sufficientemente buona”, per usare le parole di D. Winnicott, allora si forma un’idea di sé e del mondo equilibrata. Questo tipo di danza, oltre che essere caratterizzata da rotture e riparazioni, è ricca di esperienze significative. Per un bambino un’esperienza è significativa quando il genitore è disponibile a condividere con lui affetti e sentimenti attraverso l’espressione del volto, il tono della voce e le modalità gestuali. In questo senso l’esperienza più significativa per un bambino è quella del “rispecchiamento”.
Nel rispecchiamento il genitore condivide con il bambino uno stato affettivo e contemporaneamente lo aiuta a regolarne l’intensità. Attraverso il rispecchiamento il bambino riceve prima il messaggio che ciò che sta provando è reale e sensato, e poi riceve un modellamento su “cosa fare” di tutta l’attivazione psicofisiologica in atto. Man mano che fa esperienza di rispecchiamento egli da’ struttura al proprio modo di reagire alle stimolazioni del mondo e quindi alla sua personalità, che in parte è determinata geneticamente ed in parte è influenzata dalle relazioni ambientali. Nel gioco del rispecchiamento il bambino apprende il meccanismo della turnazione relazionale, per cui impara a rispondere ad una proposta stimolante del genitore ma anche a proporsi a sua volta attivamente nella relazione. Anche il genitore sintonizzandosi sul ritmo del bambino impara quanto spazio lasciare tra un’interazione e l’altra e quanta intensità metterci. Entrambi si sintonizzano facendo evolvere la relazione.
In questo gioco interattivo l’adulto compie inconsapevolmente un atto miracoloso: partecipa alla strutturazione evolutiva del cervello del bambino.
Come spiegano chiaramente D. siegel e M. Hartzell in Errori da non ripetere, molte funzioni cognitive nell’essere umano per potersi sviluppare ed integrare pienamente necessitano dell’esercizio relazionale con una figura di accudimento significativa. Se ciò non è possibile lo sviluppo non può giungere a completamento o va incontro a disarmonie.
Per poter assicurare il processo di sintonizzazione la natura dota le neo-madri una sorta di “super-potere” temporaneo: la “preoccupazione materna primaria”. Con il parto e per qualche mese a seguire, nella psiche della donna, impegnata a riorganizzare l’identità da figlia a madre, riemerge una parte infantile che le consente di capire i bisogni del bambino come nessun’altro adulto potrebbe fare. Questo assetto mentale temporaneo, frutto anche delle trasformazioni ormonali, è il motivo di tanta sensibilità normalmente osservabile nelle neo-madri, e spesso anche di vere e proprie crisi emotive. Per questo motivo a volte è difficile distinguere tra questo stato assolutamente fisiologico ed utile e la comparsa della depressione post-partum, specie se leggera, che è invece uno stato patologico. Nel dubbio è sempre meglio consultare un medico, perché la depressione post-partum pone in serio pericolo non solo la madre ma anche il bambino. Nella depressione post-partum infatti, la madre perde progressivamente la capacità di fare rispecchiamento e di sintonizzarsi con il bambino.
Con l’evolvere del rapporto genitore-figlio, il “super-potere” empatico iniziale viene sostituito dall’emergere di una competenza che il genitore (anche il padre) costruisce a partire dall’interazione con il figlio: la “funzione riflessiva”. Questa competenza è ciò che rende un essere umano “genitore” al di là dell’atto biologico della creazione, e non è scontata. Essa consiste non solo nella capacità dell’adulto di mettersi nei panni fisici e psicologici del piccolo, ma soprattutto di avere consapevolezza di come lui stesso risponde ai bisogni del piccolo e di che impatto ha il suo modo di farlo su quel bambino, per potersi regolare sulle effettive esigenze del piccolo.
E’ grazie a questa funzione che il genitore riesce ad essere flessibile, diventando proprio quel tipo di genitore di cui il suo bambino ha bisogno. Si dice che sia una “meta-competenza” nel senso che richiede che l’adulto riesca a decentrare il suo punto di vista, guardando sé e il bambino “dal di fuori”. E’ una competenza che per giungere a maturazione richiede tempo e pazienza, perché come ogni atto d’amore pone incondizionatamente l’altro davanti a sé.